Seleziona una pagina

Marx può aspettare

Categoria PerSo Masterpiece

Di Marco Bellocchio
Italia, 2021, 100’

Sabato 01 ottobre, Cinema Méliès, Via della Viola 1, ore 16.30

SCHEDA FILM

Scritto e diretto da: Marco Bellocchio

Fotografia: Michele Cherchi PalmieriPaolo Ferrari

Montaggio: Francesca Calvelli

Scenografia: Andrea Castorina

Costumi: Daria Calvelli

Musica: Ezio Bosso

Produttori: Simone GattoniBeppe CaschettoMoreno ZaniMalcom Pagani

Produzione: KavacIBC MovieTenderstoriesRai Cinema

SINOSSI

Camillo muore nel 1968. Quasi cinquanta anni dopo, Marco riunisce tutta la sua famiglia per un pranzo. Con i suoi familiari si interroga su Camillo, il suo gemello scomparso a soli 29 anni. I fratelli. I nipoti. La sorella della fidanzata del tempo. Uno psichiatra. Un prete. Parlando con ognuno di loro, rievocando quegli anni e quei fatti, Marco ricostruisce i tasselli del passato, dando finalmente corpo a un fantasma con cui ha fatto i conti per tutta la vita. Marco Bellocchio, attraverso la sua famiglia, fa rivivere la storia di suo fratello, senza filtri o pudori, quasi una indagine, che ricostruisce un’epoca storica e tesse il filo rosso di tanto suo cinema.

 

NOTE DI REGIA

Questo film nasce cinque anni fa per ricordare i compleanni dei fratelli Bellocchio superstiti che, tranne io, erano arrivati agli ottant’anni e li avevano superati (anch’io nel frattempo li ho superati) con mogli, figli e nipoti al Circolo dell’Unione di cui mio padre fu uno dei fondatori. Ma subito capii (in quel 16 dicembre 2016) che la commemorazione nostalgica di quel passato che a me, ma anche agli altri fratelli e sorelle, non aveva dato particolari gioie, non mi interessava più di tanto. Era Camillo, parlare di Camillo, che mi interessava, di cui avevo già parlato cambiandogli nome (Pippo) nel film Gli occhi, la bocca del 1981, ma in quel film in realtà parlavo di me, del gemello sopravvissuto e, poiché coinvolto completamente nell’esperienza fagioliana, volevo dare al film e a me stesso una conclusione positiva, una “sanità” finale. Un riscatto. Insomma, in parole povere, il film doveva finire bene. Infatti il gemello superstite, arido ed egoista, nel film si innamora della promessa sposa di Pippo (dopo averla odiata) e lo sostituirà in vita preservando anche la creatura che la giovane ha in grembo, figlia di Pippo. Quel film nacque sotto il segno della non libertà, della paura (del fare con paura che in arte porta al fallimento), anche la paura di dispiacere a mia madre che era ancora viva, ai miei fratelli, di non essere in linea ai principi fagioliani, tutti fantasmi che mi creavo io da solo poiché nessuno mi proibì di fare nulla. Marx può aspettare invece è diventato un film un pezzo alla volta in cinque anni fatto, ideato, montato nei ritagli di tempo tra un film e l’altro (parlo dei film normali che si girano con 50 persone di troupe) libero di non avere obblighi finali, anche perché il costo è stato molto contenuto, correndo dietro ai testimoni superstiti (molti erano nel frattempo mancati, scomparsi dunque per sempre i loro preziosi ricordi) e in particolare concentrandomi sulle interviste ai famigliari, sorelle, fratelli, cognate, figli, nipoti che danno al film, per le loro testimonianze, il senso di un’intimità allo stesso tempo tragica, ma anche sublimemente ironica com’è un po’ nello stile dei Bellocchio. Interviste poi parcamente combinate con documenti fotografici, piccoli Super 8 su Camillo miracolosamente ritrovati, quadri, e alcuni miei film che rivelano, sia pure in forma metaforica, una verità quasi ovvia e cioè che la fantasia nasce dalla nostra vita, da come siamo vissuti, in un registro più cecoviano che scespiriano, melodrammatico anche se non è facile trovare il melodramma in Cechov (forse sì, in una chiave isterico-grottesca). Anche lo psichiatra e il prete sono una presenza importante e rappresentano, caduta la meteora della politica, i due temi costanti di riferimento della mia vita: la pazzia e la chiesa cattolica, la formazione cattolica, di cui rimangono in me ampie tracce, anche se da sempre cerco di liberarmene. La doppia bestemmia de L’ora di religione è il sigillo di questa mia condizione. Voglio ricordare infine le musiche di Ezio Bosso che arricchiscono enormemente il film. Nella sfortuna di averlo perso, una perdita enorme per la musica e più in generale per l’arte italiana, abbiamo avuto la fortuna di poterne disporre e quindi un grazie a chi ce lo ha permesso. E prima a chi ce lo ha suggerito.

MARCO BELLOCCHIO

Regista. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica di Milano, nel 1959 si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma. Dopo aver seguito, a Londra, i corsi di cinema della Slade School of Fine Arts (dove elabora una tesi sul cinema di Antonioni e Bresson), nel 1965 fa il suo esordio alla Mostra del Cinema di Venezia con I pugni in tasca, opera che affronta il progressivo sgretolamento dei valori su cui si basa la famiglia. Negli anni successivi si avvicina al cinema militante: il suo anticonformismo (e le sue tendenze ideologiche di estrema sinistra), trovano uno sbocco in film come  La Cina è vicina (1967) e ‘Nel nome del padre’ (1971). Nello stesso periodo allestisce al Piccolo Teatro di Milano un’edizione politicizzata del Timone d’Atene, di William Shakespeare. Minor successo hanno invece film come Sbatti il mostro in prima pagina (1972) sul mondo del giornalismo, e Matti da slegare (1975) sui manicomi italiani, scritto con Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. Dopo Marcia trionfale (1976) sugli ambienti delle caserme e del servizio militare, Bellocchio si dedica alla televisione con due produzioni: la regia del Gabbiano di Cechov (1977) e l’inchiesta collettiva La macchina cinema (1978). Nel 1982 – diciotto anni dopo I pugni in tasca – torna ad analizzare il suo passato familiare con Gli occhi, la bocca cui fanno seguito, nel 1984 Enrico IV (tratto dalla commedia di Luigi Pirandello) e Il diavolo in corpo (1986) una libera interpretazione del romanzo omonimo di Raymond Radyguet. Dopo La condanna (1991), vince l’Orso d’Argento al Festival di Berlino con Il sogno della farfalla nel 1994. Nel 1999 realizza La balia (tratto da una novella di Pirandello) che vince il David di Donatello per i costumi e quattro Ciak d’Oro per la migliore attrice non protagonista, la fotografia, la scenografia e i costumi. Nel 1999 è stato insignito con un premio d’onore per il contributo al cinema al Festival cinematografico internazionale di Mosca, mentre nel 2011 gli è stato conferito il Leone d’oro alla carriera alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nel 2021 ha ricevuto la Palma d’oro onoraria al Festival di Cannes.

FILMOGRAFIA

Documentari